AIgeist 33 │🤑 200 miliardi spesi, ma per cosa? │Promesse, progressi e cadute un anno dopo│Parlano le aziende: cosa funziona e cosa no│Il segreto del successo? Dati e persone│Sondaggio: siete 🦉o 🏄?
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“Nei prossimi due decenni”. Inizia così il post di Sam Altman, CEO di OpenAI, datato 23 settembre sul sito personale ia.samaltman.com che si intitola “The Intelligence Age”. Un manifesto del suo pensiero che vede un futuro radioso per tutta l’umanità:
Saremo in grado di fare cose che per i nostri nonni sarebbero sembrate magiche… Loro hanno contribuito all’impalcatura del progresso umano da cui tutti beneficiamo. L’intelligenza artificiale fornirà alle persone gli strumenti per risolvere problemi difficili e ci aiuterà ad aggiungere nuovi pezzi a quell’impalcatura che non avremmo potuto capire da soli. La storia del progresso continuerà e i nostri figli saranno in grado di fare cose che noi non possiamo fare…È possibile che avremo una superintelligenza tra qualche migliaio di giorni (!); forse ci vorrà più tempo, ma sono fiducioso che ci arriveremo.
Tutto questo, continua Altman, sarà possibile grazie a un algoritmo che ha dimostrato di funzionare (in alcuni ambiti) in grado di apprendere davvero qualsiasi “distribuzione” di dati (o meglio le “regole” sottostanti che producono questi dati).
Più calcoli e dati sono disponibili, più l'algoritmo è in grado di aiutare le persone a risolvere problemi difficili.
Certo per far ciò servono energia, miliardi di chip e risorse naturali rare, e ci sono ancora “dettagli da mettere a punto” ma l’AI migliorerà con il passare del tempo e questo porterà ad avanzamenti significativi nella vita delle persone, ovunque, grazie a incredibili progressi scientifici.
Lo scritto apologetico di Altman si chiude con la metafora del lampionaio, l’addetto alla pulizia e all’accensione dei lampioni a petrolio o a gas, quando questi erano in uso più di sue secoli fa: “Se un lampionaio potesse vedere il mondo di oggi, penserebbe che la prosperità intorno a lui è inimmaginabile. E se potessimo andare avanti di cento anni da oggi, la prosperità che ci circonda sarebbe altrettanto inimmaginabile”.
Davvero tutto qui? Grande enfasi e grandi promesse di concreto molto poco. Sappiamo a quanto ammontano gli investimenti nell’AI, 200 miliardi di dollari a livello globale entro il 2025, e non siamo a conoscenza all’oggi di quando ci saranno guadagni, e soprattutto, della messa a terra. Chi ne potrà beneficiare: solo le big corp o anche noi e in che modo, a quale prezzo? Basta fare una ricerca online con keyword come i “successi e/o la rivoluzione dell’AI” per capire quanto le risposte siano vaghe: in un futuro prossimo, forse, se. I progetti per fortuna non mancano e incalzano sia nelle istituzioni pubbliche e grandi centri di ricerca, sia nel settore privato. Nel campo clinico e nella prevenzione, quello a cui tutti noi mortali pensiamo perché vogliamo campare fino a 100 anni in salute, sono state attivate diverse aree da sviluppare. Dalla diagnostica (vedi tra gli altri il progetto di Caristo Diagnostics, società spin-off dell’Università di Oxford) alla chimica -per la scoperta di nuovi e più efficaci medicinali- ma nessuno di questi è operativo e può effettivamente cambiare la nostra vita. Ci vorranno anni ulteriori di studi e conferme. Insomma siamo in una fase transitoria e quei 20 anni promessi da Altman sembrano alquanto utopistici. Anche perché l’AI è inutile senza l’addestramento degli umani.
Un bagno di realismo?
Tra i trionfi imminenti Altman cita anche il problema del riscaldamento globale. Come fa notare questo articolo del MIT Technology Review ⬇️ nel manifesto dell’enfant prodige dell’AI ci sono molte contraddizioni, a partire proprio dal consumo di energia necessaria per far funzionare i data center dell’intelligenza artificiale generativa (vedi AIgeist 14).
Il problema, afferma il giornalista, non è il futuro bensì il “fixing” del presente su temi che abbiamo ignorato per troppi anni. “Tra impianti di fissione nucleare, parchi solari, turbine eoliche e batterie, abbiamo già tutta la tecnologia di cui abbiamo bisogno per ripulire il settore energetico …eppure, nella più grande economia della Terra, i combustibili fossili generano ancora il 60% dell’elettricità. Il fatto che gran parte della nostra energia provenga ancora dal carbone, dal petrolio e dal gas naturale è un fallimento normativo tanto quanto tecnologico”. Quello che Altman non può e non sa fare e che invece serve, e subito, è una politica ambientale seria ed efficace che però deve fare i conti con gli interessi delle corporations, della finanza e del nimbismo.
Ci sono miglioramenti che gli algoritmi di intelligenza artificiale non posso semplicemente risolvere come il conflitto di interesse… Affermare che una singola tecnologia possa miracolosamente districare le complessità della società è, nel migliore dei casi, egoistico, se non un po' ingenuo.
AI e aziende, tanti fallimenti ma non più del… solito
C’è questo numero che circola, sempre quello: 70%. Sono le aziende che hanno fallito nell’implementare progetti AI – ma si applica anche alle aziende che hanno fallito questo o quel progetto di cosiddetta “trasformazione digitale”. Innovare, si sa, è difficile, le organizzazioni oppongono resistenza, spesso lo fanno anche le singole persone a molti livelli e qui casca l’asino, intelligente a piacere.
In questo contesto, il 70% di fallimento dell’AI – che è in assoluto una delle innovazioni a più veloce diffusione nella storia recente - non sono un vero insuccesso, se confrontati a progetti digitali ben collaudati e diffusi – si pensi al passaggio al cloud, al lancio di una app o all’adozione di un software generale come un CRM, un ERP o simili.
Dove sta dunque la caratteristica peculiare del fallimento AI, e possiamo imparare da chi si è già spinto avanti per non ripetere l’insuccesso?
Cominciamo dal vile denaro. Questa ricerca di McKinsey è un ottimo, come sempre, sommario di cosa sta accadendo dentro le aziende, almeno le medio grandi (delle piccole parleremo a latere).
Ci dice che nel loro campione in media generale le aziende spendono più del 5% del totale destinato a progetti digitali alla componente AI. Non molto dunque in senso assoluto, e che già pagano in termini di ritorno sull’investimento. Cosa può andare storto allora?
Spostiamoci su quest’altra “ricerca di ricerche” di carattere scientifico che ha comparato a sua volta vari studi, e prodotto questo riassunto brutale ma esaustivo:
In cima alla lista la parola magica: “data”. Ci torneremo dopo, come torneremo anche sulle persone. Brevemente risolviamo il tema infrastruttura, un po’ tecnico per i nostri lettori: la ricerca spiega che il passaggio ai sistemi cloud sia una specie di prerequisito, e che la scala e capacità dei sistemi sia un traguardo necessario. Ma non ovvio: l’adozione dei sistemi cloud cresce, ma non è affatto pervasiva come penseremmo. Qui pagano un pesante dazio le aziende più piccole: solo il 34% hanno i propri dati in un sistema cloud-first, per fare un esempio.
e... difficile accesso ai dati = difficile utilizzo di sistemi AI.
Per fare un ulteriore passo avanti prendiamo un caso di business molto peculiare: lo sviluppo di nuovi prodotti, croce e delizia di tutte le organizzazioni moderne. Su questo tema, che riguarda relativamente poche aziende, c’è una ricerca scientifica molto benfatta a questo link, che spiega la cosa secondo 7 ragioni essenziali, molto simili a quelle “classiche” del fallimento di progetti di sviluppo: sono illustrati in questo grafico:
Dati, dati e ancora dati
Se dobbiamo sceglierne 3 principali ecco i soliti noti per chi abbia fatto un po’ di digital transformation: bassa qualità dei dati, scarsa comprensione dei bisogni del cliente, mancanza di “change management” (una vera volontà di riadattare l’organizzazione all’innovazione, con le conseguenze anche sgradevoli che comporta).
Non fatichiamo a vedere fattori simili anche in progetti non legati ai prodotti digitali, ma alle funzioni interne aziendali.
Restiamo allora sul tema della qualità e disponibilità dei dati, che è al centro dei successi/fallimenti dei progetti AI anche secondo questo articolo della AIIM, organizzazione “vecchia” di 80 anni che si rivolge ad esperti di gestione dei dati. Forse un po’ “biased”, ma l’analisi è benfatta. Le aziende tendono a sopravvalutare quali quante e con quale qualità siano le proprie basi di dati, e una volta mossi i primi passi nelle applicazioni AI scoprono che la benzina manca e devono rallentare e fermare i processi per risistemare le informazioni di fondo. (Nel gergo poco elegante dei tech questa cosa si chiama “shit in-shit-out, se metti cattivi dati in una macchina AI, il risultato sarà cattivo).
Ancora dati al centro quindi.
Se le persone contano, facciamole contare
Ma parlando di materia prima, la più importante in azienda sono le sue persone, lo sappiamo tutti. E qui la regola è una: se volete che le cose vadano avanti, tutti devono essere informati e allineati. Se questo è “people management 1O1”, l’applicazione ai progetti AI è testimoniata da questa ricerca della Harward Business Review che di nuovo paragona questa innovazione alla trasformazione digitale più classica e non trova grandi differenze, semmai è tutto esasperato dalla velocità e da un generale clima di paura delle conseguenze dell’adozione, della sua velocità in particolare, che fa “90”.
Ci piacciono in particolare due consigli di questo illuminante articolo, utili per ogni leader di organizzazioni. Prima di tutto, mettere insieme tecnici e non tecnici. Secondo, staccare gli occhi dagli schermi e lavorare in ambienti offline, ragionare insieme e confrontarsi. Parole sante. E avanti con ottimismo, l’AI è qui, serve e non se ne va. Alla faccia dei gufi tecnologici 🦉, noi ci sentiamo 🏄🏻!